Il 4 settembre alcuni partigiani compiono un attentato al ristorante della Stazione situato al Pilone Virle nei pressi di Carignano. Un soldato tedesco rimane ucciso e un altro viene ferito. Il comando tedesco (Alois Schmidt e altri ignoti militari) preleva immediatamente dieci ostaggi fra la popolazione civile e li porta alle Carceri Nuove di Torino. Il giorno successivo la Decima Mas 8 (italiani della RSI fascista), probabilmente per mantenere alta la tensione, viene inviata in rastrellamento a Carignano: molte case sono saccheggiate e un anziano contadino (Giovanni Lorenzo Peyretti) viene ucciso. Il 6, dopo due giorni di trattative, il Comando tedesco si impegna, dietro una corresponsione di denaro, a non uccidere gli ostaggi prelevati a Carignano, ma a sostituirli con otto detenuti già segnati nelle liste di rappresaglia. Il 7 settembre vengono prelevati dalle Carceri delle Nuove e impiccati al Pilone Virle nello stesso luogo dell’attentato. Per ordine del comando germanico i cadaveri restano esposti sino alle otto della sera. All’esecuzione oltre al commissario prefettizio assiste Pier Luigi Vigada, ufficiale sanitario, che nel dopoguerra pubblicherà un’accurata ricostruzione del fatti. Gli otto partigiani sono.

  • Brugo Giorgio, nato nel 1924 a Romagnano Sesia, partigiano nella 84° Brg. Strisciante, I Div fratelli Varalli
  • Cocito Leonardo, Barberis, nato il 09/01/1914 a Genova vicecomandante 12 Div Bra autonomi
  • Cossu Antonio, nato il 25/05/1921 a Nule partigiano 12 Div Bra autonomi
  • De Zardo Liberale, nato il 02/11/1893 a Catania partigiano Brg Matteotti
  • Lamberti Marco, Marco nato il 13/02/1915 a Bra comandante di distaccamento nel I Gruppo Divisioni Autonome Alpine
  • Mancuso Piero, Piero nato il 16/07/1920 a Palermo partigiano 10 Div Gl
  • Porello Giorgio, Gino nato il 31/03/1920 a Cherasco Bra partigiano 12 Div Bra Autonomi
  • Portigliatti Guido, nato il 28/01/1925 a Avigliana partigiano 41 Brg Garibaldi Carli

Come tutti gli anni, l’A.N.P.I sezione di Carignano, col concorso dell’Amministrazione Comunale e di numerosi cittadini carignanesi e non ha commemorato venerdì 8 settembre 2023 l’evento, considerato tra quelli fondanti della libertà costituzionale di cui gode oggi lo Stato, nonostante gli attacchi di molte forze politiche. Ringrazio l’amico Roberto Falciola, consigliere comunale, che mi ha concesso di pubblicare un suo scritto del 2022, letto in occasione della commemorazione dello scorso anno.

Otto vite per dieci vite.

Quella mattina non erano loro a dover morire. La loro impiccagione era una rappresaglia, ed è avvenuta qui perché proprio qui, tre giorni prima, al ristorante della Stazione che era in questo luogo, in un attentato era stato ucciso un soldato tedesco e un altro era rimasto ferito. Il comando tedesco aveva subito prelevato dieci uomini carignanesi, portati a Torino alle Nuove. Il giorno dopo erano arrivati i fascisti repubblichini della Decima Mas, a saccheggiare, devastare, intimidire la popolazione, e un contadino, Giovanni Lorenzo Peyretti, era stato ucciso. Intanto si erano avviate delle trattative con il comando tedesco di Torino, che diedero i loro frutti il giorno 6. Venne corrisposto del denaro, i dieci carignanesi tornarono a casa. Al loro posto, sarebbero stati impiccati otto partigiani, già in carcere anche loro alle Nuove. È questo il retroscena, narrato in modo sommario, del triste avvenimento che stasera, come ogni anno, ricordiamo. È bene ricordarci che quegli otto partigiani con Carignano non c’entravano niente. Non sappiamo se ci fossero mai passati prima, non sappiamo nemmeno se sapessero il nome del posto in cui sono stati portati a morire. Quegli otto uomini avevano messo in conto, entrando nelle bande partigiane, che la loro vita era a rischio e avrebbe potuto finire ogni giorno. Risulta difficile, a noi, che siamo nati e vissuti in tempo di pace, immedesimarci in quella consapevolezza, di accettare di poter morire non per una malattia, un incidente, un caso o per semplice vecchiaia ma per essersi messi volontariamente a rischio, per un ideale, per un desiderio, per una speranza, per qualcosa che insomma vale la pena del proprio sacrificio. Erano otto, diversi tra loro per età, mestieri, provenienza geografica, eppure quello che colpisce, leggendo o ascoltando, come tante volte abbiamo fatto qui, il memoriale del dottor Vigada, è la grandissima dignità e il coraggio con cui ciascuno di loro ha affrontato la forca. Nelle loro ultime parole la diversità di ognuno di loro è diventata l’ordito e la trama di un unico tessuto, fortissimo. Forse è proprio per quel l’atteggiamento e per le ultime parole così simili, che ci viene spontaneo, quando pensiamo agli otto, di pensarli proprio come un tutt’uno, come un’identità condivisa, come una bellissima bandiera partigiana.

Il primo a salire sul patibolo fu Antonio Cossu: veniva da Nule, in Sardegna, aveva ventitré anni. L’8 settembre ’43 era soldato da due anni. Dapprima aveva vissuto da sbandato lavorando nelle campagne fra Torino e Alessandria, poi era entrato nella 12ª Divisione Autonoma Bra. Era stato arrestato pare per delazione di un barbiere e una donna che, fingendosi amici, erano in realtà spie. È il primo, e forse così si può spiegare che, come ha scritto Vigada, «il suo aspetto denunzi uno stato d’animo poco tranquillo». Eppure «risponde con voce franca» e declina con precisione le sue generalità. Poi aggiunge: «Non ho fatto nulla: sono innocente. Non ho ucciso nessuno».

l secondo era Leonardo Cocito: aveva trent’anni, faceva l’insegnante di italiano al liceo classico di Alba, avendo tra gli allievi anche Beppe Fenoglio che poi scrisse di lui nel Partigiano Johnny. L’8 settembre 1943 era tenente di fanteria nella caserma di Alba, da cui fuggì su un camioncino stipato di armi, che sarebbero poi servite per organizzare i primi nuclei della resistenza. Insieme al braidese Marco Lamberti, operaio metalmeccanico anch’egli di idee comuniste, si stabilì con un gruppo di giovani alla sinistra del Tanaro, nella zona tra Monticello e Santa Vittoria, agendo da indipendenti, pensando di confluire poi nelle formazioni garibaldine. Ma non ne ebbero il tempo perché il 18 agosto 1944 Cocito (nome di battaglia Barberis), Lamberti e altri compagni furono catturati grazie ad una finta tregua concordata con il comando del reparto della “Muti” di presidio ad Alba. I due erano in carcere da una ventina di giorni quando furono portati a Carignano. Si avvicina a Vigada sicuro e sorridente. Sul patibolo grida con voce stentorea: «Viva l’Italia». L’ufficiale tedesco commenta: «Questo essere uomo». Cocito è medaglia d’oro al valor militare alla memoria. Ad Alba nel 1969 gli hanno intitolato il Liceo Scientifico, Genova gli ha intitolato una via. I

A questo punto, prima di procedere, fermiamoci un momento a pensare a cosa abbia voluto dire, per quegli uomini che attendevano il loro turno, vedere i compagni, uno dopo l’altro, assolvere i riti che erano loro imposti e esalare l’ultimo respiro in quella maniera violenta e drammatica. Eppure nella relazione del dottor Vigada non compare nessuna disperazione, nessuna crisi di panico, solo coraggio, serietà, dignità e, dopo Cocito, sulle labbra di tutti e sei le parole: «Viva l’Italia».

Il terzo è il più anziano, Liberale De Zardo, catanese cinquantenne, tenente colonnello dell’esercito, cammina verso Vigada «a passi svelti ed andatura militare». Il nome di battaglia è Osvaldo, ha combattuto prima nelle formazioni partigiane liguri e poi nella Brigata Matteotti Divisione Cuneense. Con Mancuso, è uno dei 2160 siciliani che hanno combattuto in Piemonte e uno dei 211 che vi hanno lasciato la vita. È medaglia d’oro al valor militare. A Messina gli hanno dedicato la via Osvaldo Liberale De Zardo.

Il quarto è il più giovane, Guido Portigliatti: ha diciannove anni e mezzo, viene da Avigliana dove faceva il meccanico. È partigiano nella 41a Brigata Garibaldi, che si era formata il 1° luglio di quell’anno e operava tra la Val di Susa e la Val Sangone. Avigliana gli ha dedicato una via.

Il quinto è Pietro Mancuso, chimico palermitano ventiquattrenne, vicecomandante della 10a divisione Giustizia e libertà, presenza storica nella banda, nome di battaglia Piero. Era guardiamarina, dopo l’8 settembre invece di ritornare a Roma va a combattere in Langa. Il 6 agosto si trovava in una frazione di Vezza d’Alba e verso le quattro del pomeriggio con altri quattro partigiani era salito su una Balilla per andare a un incontro a Canale. Il destino ha voluto che, appena scesi dalla macchina, è arrivata dietro loro una pattuglia di fascisti proveniente da Alba; c’è una sparatoria, due partigiani vengono uccisi, Mancuso è fatto prigioniero. Quindi è in carcere da un mese quando viene prelevato per essere portato qui. A Vigada sembra agitato, ma quando è sul patibolo grida «Viva l’Italia e viva la Germania libera!», stupendo l’ufficiale tedesco che gli chiede il perché; ma non ha tempo per rispondere.

Il sesto è Giorgio Brugo, ha ventun anni, viene da Romagnano Sesia dove faceva il manovale. È partigiano nella 84a Brigata Garibaldi «Strisciante Musati», attiva in Valsesia. Manda i saluti a famiglia e fidanzata, ed è il primo ad esprimere un pensiero di fede: chiede perdono a Dio per i suoi peccati e perdono anche per chi lo sta uccidendo.

Il settimo è Giorgio Porello, studente di chimica di ventiquattro anni, di Cherasco. Era tenente dell’esercito e, dopo l’8 settembre, era stato l’organizzatore dei primi gruppi di partigiani di Bra e del Roero e apparteneva alla 12° Divisione Bra Autonomi. Anche lui chiede a Dio perdono per i suoi peccati, poi ricorda che il giorno dopo è una festa della Madonna, e le chiede di aiutarlo a entrare in paradiso.

L’ultimo è Marco Lamberti, ventinovenne di Bra, risiede a Caramagna e nella vita civile faceva il meccanico. Era stato mobilitato come sottufficiale dell’Aeronautica e dopo l’armistizio era entrato subito nella Resistenza. Quando viene catturato, insieme a Cocito, è comandante di distaccamento nel I Gruppo Divisioni Autonome Alpine. Anche sua sorella Lena è partigiana e vivrà poi a Carmagnola, dove Marco è sepolto. Lascia detto alla famiglia di non aver pianto e che stiano tranquilli, perché li affida a Dio. È Medaglia d’argento alla memoria.

Con l’ultimo respiro di Lamberti il dramma sembrerebbe concluso. Non lo è per chi resta. Persino il comandante tedesco sembra consapevole della disumanità di quanto è successo: «Brutto ordine, brutto comando. Cosa più brutta da dover fare» e non vede l’ora di andarsene. Restano il medico, il parroco che non ha neanche potuto avvicinarli, il commissario prefettizio che dovrà sorvegliare che nessuno li tocchi. Restano i carignanesi che stanno venendo per pregare per i morti. Resta Carignano colpita, profondamente colpita da una tragedia che provoca una ferita così grande da rimanere aperta negli anni, nei decenni, fino a stasera. Noi ricordiamo questi otto uomini, i loro visi, le loro storie, le loro ultime parole. Li ricordiamo nelle strade che abbiamo dedicato in Carignano a ciascuno di loro e nel largo che abbiamo chiamato Otto Martiri.

Era una rappresaglia e doveva essere una lezione, per imparare che l’invasore non si tocca ed è meglio lasciar perdere il desiderio della libertà. Ed è stata davvero una lezione, ma del tutto opposta. Perché dall’esempio della morte crudele ma piena di dignità di questi otto uomini, e dall’impegno di migliaia e migliaia di donne e di uomini che in quel tempo non si sono rassegnati e si sono opposti, abbiamo imparato che la libertà e la dignità degli esseri umani e dei loro popoli è qualcosa per cui vale la pena lottare, perfino dando la vita. E che per essere fino in fondo e degnamente donne e uomini talvolta è necessario resistere.

Roberto Falciola

località Pilone Virle, la lapide commemorativa realizzata dallo scultore carignanese Gianni Busso
7 SETTEMBRE 1944 – L’eccidio di Pilone Virle

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